mercoledì 5 ottobre 2016

IL MALE


"Non esiste male fuori dall'uomo: il male è il sottrarsi di lui alla responsabilità della propria volontà: il fare del logos un nome, o un sentimento, o una mistica, o una rappresentazione. Il Logos, rappresentato o sentito o nominato, non può essere il Logos, perchè concepito come entità esteriore da un essere privo di Logos, dall'ego: che vuole mantenersi quale è, e tuttavia sentire il Logos, accoglierne la vastità, a patto di adattarla a sè, secondo l'istanza subconscia del doppio ahrimanico."


Molto profonda questa riflessione di Scaligero. Mi ha richiamato alla mente una citazione di Lao Tsu, espressa magnificamente da Augusto Shantena Sabbadini nella prefazione de IL RITMO DEL CORPO, che riporto parzialmente:

"La più famosa formulazione di questa avversione dei daoisti nei confronti della conoscenza discorsiva è il primo verso del Daodejing (Tao Te Ching), il primo testo fondamentale del daoismo:
il Dao che può essere detto non è l’eterno Dao.[1]
Il significato primario del termine dao è ‘via, strada, cammino’; di qui si estende a indicare ‘via da seguire, principio guida, norma, dottrina’; e di qui ancora a indicare ‘discorso, dire, parlare, insegnare’. Una prima lettura di questo primo verso del Daodejing perciò potrebbe essere “ogni via che può essere indicata non è una via eterna (o costante)”, oppure “ogni norma che può essere enunciata non una norma eterna (o costante)”.
In questo senso il verso enuncia una intrinseca limitazione del linguaggio: la sua incapacità di catturare l’essenza ultima delle cose, la natura ultima della realtà. La verità, non appena essa viene formulata in parole, organizzata in un discorso, già non è più verità. La via è indescrivibile, non si lascia codificare mediante prescrizioni, non è catturabile mediante un codice di comportamento (come cercavano invece di fare i confuciani, i discepoli di Confucio). La stessa consapevolezza dei limiti del linguaggio è caratteristica del pensiero postmoderno. Negli anni ’30 il matematico Korzybski ci ha ricordato che il linguaggio fornisce solo mappe della realtà e che “la mappa non è il territorio”.
Ma se la consapevolezza dei limiti del linguaggio accomuna gli antichi maestri daoisti e i pensatori postmoderni, le implicazioni che essi ne traggono sono assai diverse. Mentre l’incapacità del linguaggio di comprendere la realtà ultima induce i pensatori postmoderni ad abbandonare l’idea di una realtà ultima, privilegiando la dimensione della realtà come discorso, per i daoisti accade l’opposto: la sola cosa che li interessa è la realtà indicibile, il Dao che non può essere detto, la dimensione esperienziale della conoscenza. Per questo inventano un nuovo senso per la parola dao, capovolgendone la connotazione: il senso che nelle lingue occidentali distinguiamo con l’iniziale maiuscola, il Dao che è l’indicibile essenza ultima della realtà, il non manifesto che sottostà a ogni manifestazione.
Se il Dao non può essere detto in parole, esso è tuttavia in un certo senso quanto di più immediato ci sia dato vivere: è il movimento del tutto, lo spontaneo fluire della realtà di cui facciamo esperienza essenzialmente attraverso il corpo.
I daoisti portano quindi un’estrema attenzione alla conoscenza esperienziale il cui veicolo è il corpo. Per questo, paradossalmente, questi partigiani della spontaneità, questi nemici del metodo, elaborano una grande varietà di tecniche corporee, che abbracciano la meditazione, le arti marziali e la cura della salute. E il paradosso è solo apparente: come un fiume che scorre dentro il suo alveo, la perfetta spontaneità richiede una forma per essere vissuta."


[1] Lao Tzu, Tao Te Ching. Una guida all'interpretazione del libro fondamentale del taoismo, traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini, URRA, Milano, 2009

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